pubblicato il 12 07 2012
È possibile cambiare punto di vista, porre l’uomo e non il profitto al centro delle strategie d’impresa? La risposta è sì, perché già 650 imprenditori in tutta Europa vi basano – con successo – la loro attività. A fare da apripista fu Christian Felber, sociologo ed economista di Salisburgo, che questo genere di mondo lo aveva scritto nel suo libro Economia del bene comune.
«Il bilancio del bene comune produce senso, rappresenta la vita, la complessità della realtà, perché riguarda tutti: il lavoro, la natura, le generazioni future. E prende in considerazione anche coloro che hanno fondato l'impresa. La maggior parte degli imprenditori mi dice: “Vorrei dare un contributo sensato, vorrei fare prodotti sensati, prestare servizi sensati. Questo rappresenta un grande cambiamento».
Oggi sono in molti ad aver concretizzato questa visione. Franz Baumann per esempio, a capo di un’azienda la cui bussola non è il conto economico bensì il “bilancio del bene comune”, ha dichiarato di recente al programma televisivo di RaiTre Report: «La mia azienda esiste da 125 anni e le dimensioni sono rimaste identiche. È cresciuta solo la qualità della tecnologia e del benessere dei lavoratori che si calcola nel bilancio chiamato “del bene comune”. Gli imprenditori che lo applicano hanno spostato gli obiettivi dell’economia di mercato: da ricerca del profitto e concorrenza, a bene comune e cooperazione. I miei dipendenti stanno per diventare con me e dopo di me proprietari dell’azienda, con partecipazioni fino al 49 per cento. Mentre il 51 apparterrà a una fondazione, per garantire il più a lungo possibile la continuità dell’azienda. E un’idea così vale tanti punti nel bilancio del bene comune. Assumi un rifugiato politico? Aggiungi punti al bilancio. L’ambiente di lavoro è confortevole? Altri punti. La tua attività non si azzarda a inquinare? Vale tantissimi punti». Baumann fa parte di quel movimento di oltre 650 imprese in 13 Stati che stanno agendo in questo senso e, come afferma Günther Reifer del Terra Institute di Bressanone (nella foto), dovrebbe creare un trend. «I miei clienti diranno: “io guardo anche a questo fattore quando compro: quanti punti ha questa azienda?”».
È Reifer a spiegarci l’affascinante “modello del bene comune”, riferito a una forma evoluta di marketing, detta “marketing 3.0”. «Sono aziende», dice, «che alle classiche “quattro P” del marketing ne hanno sostituite tre: People, Planet e Profit. Profitto, certo, perché senza fatturato un’azienda cessa di esistere. Ma “profitto” subordinato a “people” e “planet”, cioè a uomini e ambiente». Curiosamente, questo modello è stato ideato sempre da Philip Kotler, il guru del marketing cui si deve anche l’invenzione delle quattro P classiche.
Il modello misura quanto l’azienda faccia per il bene comune. «L’economia del bene comune definisce un sistema economico alternativo, basato su valori», afferma Reifer. «La matrice del bene comune si sviluppa su un’ascissa fatta di valori (dignità dell’essere umano, solidarietà, ecosostenibilità, equità sociale, cogestione democratica e trasparenza) e un’ordinata su cui si distribuiscono i portatori di interessi: fornitori, finanziatori, dipendenti e titolari, clienti e partner, contesto sociale. A ognuno dei 17 cluster che derivano da questa matrice si associa un punteggio: maggiore sarà il punteggio totale, maggiore sarà il contributo che l’azienda avrà dato al bene comune. Il massimo è mille». Per esempio, l’incrocio tra la voce “fornitori” e tutte quelle sulle ascisse produce il maxi-cluster “gestione etica delle forniture”, che vale 90 punti e che impone un confronto e una discussione fattivi sui rischi dei prodotti/servizi acquistati esternamente, nonché il rispetto di criteri sociali ed ecologici nella scelta dei beni e dei servizi. L’incrocio tra “finanziatori” e ascisse produce “gestione etica delle finanze” (30 punti), che significa porre attenzione ai criteri sociali ed ecologici nella scelta dei servizi finanziari, degli investimenti e dei finanziamenti. Numerosi gli altri cluster: tra “clienti/partner” e “dignità dell’essere umano” nasce “vendita etica” (50 punti); tra “contesto sociale” e “solidarietà” esce “contributo in favore della collettività” (40 punti) e così via.
Ci sono anche criteri negativi, che anziché aggiungere punti ne tolgono: “violazione dei diritti umani” (-200), “prezzi dumping” (-200), “obsolescenza programmata” (-100) ecc.
I bilanci ovviamente sono trasparenti e controllabili sia dai consumatori sia dai concorrenti. «Il modello», conclude Reifer, «dà uno status quo, aumenta la motivazione e la creatività, e apporta un beneficio anche alla redditività. È da auspicare che chi lo applica possa ottenere anche agevolazioni fiscali, perché l’adozione del modello implica in se stessa l’attitudine alla socialità: già 14 sindaci altoatesini hanno espresso parere positivo».
ll circolo virtuoso del bene comune, che arriva a coinvolgere i dipendenti, si realizza anche in Italia, soprattutto nell’Alto Adige.Euroform (Campo Tures – BZ) per esempio rifiuta di tenere qua i colletti bianchi (il cosiddetto head office) e produrre in Paesi lontani, sulla base di una considerazione eminentemente etica: l’impresa qui è nata e qui ha le sue radici. In una fabbrica di stampi per l’industria, sempre altoatesina, c’è un fondo dove entra una parte del guadagno ed è ridistribuito in premio di produttività, e la produttività gli operai la fanno non con chissà quante ore di straordinario ammazzandosi di lavoro ma cercando di far andare le macchine nella notte con il robot.
Chiosa, sempre a Report, il presidente di un istituto di credito. Le sue parole sono illuminanti. «Speculavamo su tutto perché pensavamo che fosse giusto così, ma poi ci siamo chiesti: è questa la via migliore? Abbiamo messo sul banco di prova gli affari che abbiamo fato per anni e abbiamo buttato tutto perchè ci siamo resi conto che stavamo contribuendo anche noi a creare un sistema completamente staccato dalla società e ricominciato a “fare la banca”: raccogliere e ridistribuire ricchezza a un tasso basso. Non guadagniamo più il 10-12% di una volta ma il 5%, e stiamo tutti bene».
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