Incentive a lungo raggio: ne vale la pena?

pubblicato il 27 09 2012

Fino all’11 settembre 2001 i viaggi incentive venivano programmati con largo anticipo e duravano mediamente una settimana. Poi, per parecchi anni sono stati fissati sotto data e, ove possibile, fondevano il lato leisure a quello professionale, inglobando una convention o un meeting allargato.

Quindi s’è registrato un ritorno alle origini, con trasferte a medio-ampio raggio e permanenze mai inferiori a cinque notti. Infine, la crisi economica ha ulteriormente corretto il trend, rarefacendo il lungo raggio e riducendo – sia pure di poco – il numero dei pernottamenti.

Ma con quali criteri è corretto stabilire la durata di una trasferta? Di primo acchito si direbbe che tutto dipenda dalla lontananza della meta. E molto banalmente è vero: un volo a sette fusi orari di distanza presuppone un soggiorno assai più lungo di una scampagnata fuori porta, foss’anche solo per ammortizzare i costi. Tuttavia nulla è flessibile quanto la permanenza in un Paese lontano, proporzionale non solo al recupero del jet lag ma anche al numero di location, di città o di siti artistici cui si decide di fare visita. Ci sono tour operator specializzati che per ogni meta propongono sino a dieci programmi a catalogo, ciascuno con una sua durata e una sua precisa quantità di escursioni. A volte basta andar di forbice e “tagliare” i trasferimenti interni al programma più lungo per ottenerne uno breve ma di pari efficacia, anche se long haul.

Esiste dunque una metodologia più generale per fissare, di caso in caso, il raggio della trasferta e il numero di notti giusto?

Obiettivo Roi

Alcuni anni fa una compagnia assicurativa americana mandò i suoi sales manager, vincitori di un programma incentive, letteralmente dall’altra parte del pianeta, ossia a Hong Kong. Il viaggio fu magnifico, ricco di tutto ciò che può soddisfare le aspettative di un gruppo tanto qualificato, ma al rientro il vicepresidente annunciò che l’azienda non avrebbe mai più progettato una ricompensa così distante dalla sede. Gli incentivati – disse – non desiderano andare troppo lontano essenzialmente per due ragioni:

  • non vogliono volare per 13 ore;
  • non amano assentarsi a lungo dal lavoro e dalla famiglia

 

Assorbiti dunque i contraccolpi degli attacchi alle twin towers prima e del diffondersi della Sars poi, che azzerarono la spinta verso mete lontane, soprattutto del sud est asiatico, sono subentrati altri e più personali elementi di freno. Inoltre la congiuntura sfavorevole induce a prestare un occhio di riguardo al fattore economico, per cui anche i viaggi incentive sono valutati in base al ritorno sull’investimento. Le trasferte a lunga distanza tendono a essere più costose e ad assorbire un numero di giorni maggiore di quelle a corto raggio, per cui possono diventare sinonimo di tempo perso o quanto meno poco redditizio.

Il taglio dei costi sta dunque ancor oggi alla base della riduzione dei raggi di trasferta. Ma è anche, per converso, il riflesso della superficialità con cui in alcune aziende si affronta il problema. Diverse tratte sono battute meno di altre, anche se più brevi, perché meno tradizionali e pertanto più inclini a suscitare nel viaggiatore la sensazione della lontananza. Altre vengono scartate perché rischiano di dare dell’azienda un’immagine troppo disinvolta o sprecona, e magari nessuno si accorge che la somma delle tratte a breve raggio percorse in un anno dà costi superiori a quelli di un long haul una tantum. Anche qui torna utile l’esperienza americana: dalla east coast degli Stati Uniti partono ogni anno centinaia (se non migliaia) di gruppi incentive verso le isole Hawaii, malgrado i tempi di volo siano identici a quelli di una trasferta in Sudafrica. Insomma, è la percezione a contare più dei fatti.

Dall’altro lato, come si è detto, i sales manager temono le conseguenze di una prolungata assenza dal lavoro degli agenti migliori. Per questo bocciano idee di viaggio anche notevoli, senza considerare che la loro efficacia motivazionale basterebbe da sola a bilanciare i costi-opportunità. Va comunque detto che la ritrosia di molte persone a permanere in volo per 15 ore di fila costituisce un deterrente anche per l’incentive manager più avveduto.

La regionalizzazione

La tendenza che scaturisce da tutto ciò è dunque la regionalizzazione delle mete. Ciascuna multinazionale tende ad accorciare le tratte in funzione dell’allocazione geografica di ogni sua sede, così da premiare i dipendenti, i sales o i dealer più bravi in funzione delle destinazioni più appealing dell’area, senza guardare più in là. Tre le zone di riferimento: Americhe (Stati Uniti, Canada, Messico e i Caraibi), Emea (Europa, Medio Oriente e Africa) e Asia-Pacifico (i cui maggiori committenti sono Cina e India, le nuove locomotive dell’economia mondiale). Le cifre sono indicative della guerra che le mete stanno facendosi per attrarre in esclusiva gli incentivati. Un esempio è senz’altro Singapore, “terra di frontiera” fra le aree della geopolitica. Negli anni scorsi registrò un picco in discesa dei gruppi incentive dall’Europa, ossia fuori area, ma per converso aumentarino gli arrivi dagli Stati Uniti, soprattutto dalla west coast, che dà sul Pacifico e dunque è una propaggine della stessa regione. Segno che se la lunghezza della tratta costituisce ancora un pregiudizio per la vendita, l’appeal della destinazione, unitamente alla locazione geografica, è in grado di porsi quale business proposition vincente.

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